Un diffuso bisogno di conoscenza ci spinge a proporre e offrire ai lettori del nostro blog una breve panoramica sul pensiero politico italiano. Non faremo una disamina storica ordinata degli eventi e delle culture politiche che hanno influenzato la vita politica italiana, ma cercheremo di analizzare le migliori culture politiche proposte da pensatori che hanno pagato spesso con l'isolamento, il carcere o la morte la loro voglia di raggiungere la libertà e la democrazia.


Antonio Gramsci (1891-1937), nato ad Ales in Sardegna, è il pensatore politico più originale della fine della prima metà del novecento. Grande analista della politica, fu a capo del Partito Comunista che concorse a fondare al congresso di Livorno (1921). Si ricorda soprattutto per la battaglia che condusse sia contro il massimalismo bordighiano sia contro il totalitarismo stalinista che si affermava in quegli anni in URSS. Al di là delle tormentate vicende umane che lo videro sconfitto e incarcerato con l'avvento del fascismo in Italia, preme sottolineare come Gramsci, riesaminando anche la sua stessa vicenda personale, consegnò due delle più grandi opere della cultura politica italiana moderna: lettere dal carcere e i quaderni del carcere.

Gramsci ripensava la vita politica italiana in un quadro storico generale e complesso. Egli riflettendo sulla vittoria del fascismo come conclusione di una particolare evoluzione della storia nazionale, analizzava le cause della profonda divaricazione verificatasi in Italia fra politica e cultura, fra popolo e intellettuali. In questa mancata fusione politica della nazione italiana stanno per Gramsci le ragioni della debolezza del risorgimento e dello Stato italiano. In realtà lo Stato italiano resta dominato secondo Gramsci da due sovversivismi: il sovversivismo dall'alto delle classi dirigenti, incolte, conservatrici e autoritarie, il sovversivismo dal basso delle classi subalterne ridotte all'ignoranza e alla non-partecipazione. In Italia, dunque, secondo Gramsci, sia i laici che i cattolici sono stati incapaci di costruire una cultura politica aperta alle nuove masse popolari e per questo hanno fallito.

Agli intellettuali dell'èlite liberale laica Gramsci imputa il disprezzo delle masse, delle quali non intendono i bisogni e l'irresponsabilità politica nella costruzione dello stato. Alla chiesa imputa, invece, il non volersi compromettere nella vita pratica economica e il mancato impegno per attuare i princìpi sociali che afferma e che non sono attuati. A parere di Gramsci, la Chiesa era disposta a lottare solo per difendere le sue particolari libertà corporative cioè i privilegi che proclama legati alla sua presunta essenza divina. Ma Gramsci critica anche i limiti di corporativismo della masse rinchiuse in interessi economici immediati e in un torpido folklore, scarsamente acculturate, prive di dirigenti dotati di attendibili e responsabili strategie. Per questo motivo Gramsci ritiene essenziale la creazione di collegamenti culturali rigorosi fra intellettuali, dirigenti e masse popolari per scavalcare ogni settarismo e ogni chiusura corporativa ed elitaria e propone la creazione di un partito capace di educare, oltrechè govenare.

1 commenti:

CHE UOMO GRAMSCI!!!
UNA VOLTA NELLE SCUOLE DI PARTITO FACEVANO LEGGERE I SUOI QUADERNI.
SAREBBE OPPORTUNO RIVALUTARE IL SUO PENSIERO.

16 dicembre 2008 alle ore 17:22  

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