La direttiva annunciata dal ministro Maroni contro i cortei "selvaggi" contempla anche una cauzione come forma di garanzia per eventuali danni arrecati dai partecipanti.

Niente più manifestazioni davanti ai luoghi di culto. Lo ha deciso il ministro dell'Interno Roberto Maroni sulla scia delle polemiche seguite alla preghiera islamica in piazza Duomo a Milano a conclusione di un'iniziativa di solidarietà con la popolazione palestinese della Striscia di Gaza. "Ho preparato una direttiva, ha affermato il responsabile del Viminale nella giornata di ieri rispondendo ad un'interrogazione al question time alla Camera, che verrà inviata a tutti i prefetti affinché fatti come quelli avvenuti davanti al Duomo di Milano non abbiano a ripetersi".
Il ministro ha poi ribadito che l'obiettivo è quello di "meglio regolare le manifestazioni, garantendo il diritto di manifestare e allo stesso tempo il diritto dei cittadini a fruire pacificamente degli spazi della propria città". E quanto agli incidenti che si sono verificati con alcuni esponenti dei centri sociali - "gruppi isolati vicini alle frange anarchico-insurrezionalisti che tentano ancora di strumentalizzare momenti di aggregazione per recuperare visibilità" - Maroni ha sottolineato che la "responsabilità d'intervenire spetta all'autorità giudiziaria". "Le forze dell'ordine - ha sostenuto - garantiscono il diritto di manifestare, sempre nel rispetto della legalità". Sulla questione sollevata dal Minstro degli Interni sorge un dubbio più che legittimo: come sarà possibile conciliare il diritto di manifestare liberamente con una direttiva ministeriale che nei fatti impedisce le manifestazioni in tutte le piazze italiane che come è noto sone ricche di chiese e qindi di uogo di culto? Sembra piuttosto che una direttiva tesa a regolamentare i cortei una direttiva per imbavagliare le persone e piegarle alla logica del pensiero unico.
Inoltre, Il 19 gennaio scorso, nell’indifferenza dei media ufficiali, il governo ha tramutato in legge il decreto sul «pacchetto sicurezza», un provvedimento che, in nome di un’«emergenza sicurezza» tutta da dimostrare, rischia di ridurre sempre più i diritti e le libertà dei cittadini. A partire, ovviamente, dai soggetti più deboli, come i migranti, a cui viene riservata una sorta di legislazione speciale che rischia di violare il principio costituzionale di uguaglianza. A Roma, nelle ultime settimane, diverse reti migranti, nate attorno al circuito dei corsi di lingua italiana dei centri sociali, hanno promosso una campagna contro il «pacchetto sicurezza» che per la prima volta vede un diretto protagonismo dei cittadini stranieri. Le prime assemblee si sono svolte nel centro sociale Ex Snia Viscosa, nel quartiere Prenestino, una zona con un’alta densità di popolazione migrante. Centinaia di persone hanno discusso di una «campagna di resistenza» ai provvedimenti del governo che ha fissato una prima scadenza per venerdì 31 gennaio, un corteo cittadino che attraverserà le zone centrali della città, a partire da piazza Vittorio, simbolo della città meticcia . «Le norme contenute nel Pacchetto – si legge nell’appello che promuove la manifestazione – prevedono una politica fondata esplicitamente su misure segregazioniste e razziste per le persone migranti, con o senza permesso di soggiorno, le prime ad essere additate come figure pericolose e causa di ‘allarme sociale’, e su nuove e ancora più drastiche misure repressive contro chiunque produca conflitto e non rientri nelle maglie strette del controllo». L’appello segnala i punti più pericolosi della legge approvata dal governo: tra queste, l’obbligo di dimostrare l’idoneità alloggiativa per ottenere l’iscrizione anagrafica [che colpisce migranti, senzatetto, occupanti di casa e chiunque non possa permettersi un’abitazione «regolare»] e le norme per la «difesa del decoro urbano», che prevedono sanzioni penali più pesanti per chiunque venga sorpreso a scrivere sui muri. Ma i dispositivi della legge colpiscono in primo luogo i cittadini migranti: la persona senza permesso di soggiorno rischia di essere denunciata dal medico se si reca al pronto soccorso, non potrà più riconoscere i figli e le figlie, non potrà sposarsi né inviare i soldi alla famiglia. Inoltre, la norma introduce la detenzione nei Cie [Centri di identificazione, gli ex Cpt] fino a 18 mesi, una nuova tassa per la richiesta o il rinnovo del permesso di soggiorno, condizioni più ristrette per acquisire la cittadinanza e, infine, il reato di ingresso e soggiorno illegale nello stato.Venerdì 23 gennaio, alle ore 19, all’ex cinema Volturno occupato, nei pressi della stazione Termini, si terrà un’assemblea pubblica per organizzare la manifestazione del 31 gennaio.

Per tutte le informazioni sulla manifestazione del 31 gennaio contro il pacchetto sicurezza: http://nopacchettosicurezza.noblogs.org/

Gli effetti negativi del "Veltrusconismo".

Per capire ed analizzare gli effetti negativi del "veltrusconismo" ci serviamo di due articoli uno attuale apparso su liberazione di oggi 22 Gennaio a firma di Dino Greco, un altro, meno recente, che tenta di delineare gli aspetti della politica di "opposizione" della compagine veltroniana. Una nuova posizione politica che basa le sue fondamenta sulla opposizione soft e su pratiche consociativistiche.



Il Partito democratico lascia sola la Cgil
tratto da Liberazione
di Dino Greco

Veltroni si schiera e va all'attacco del lavoro. Su tutto il fronte. La lunga intervista concessa ieri al Sole 24 Ore , malgrado qualche passaggio criptico, non lascia margini d'equivoco. La latitudine dell'intervento è vastissima. Innanzitutto le pensioni, tema sensibile su cui da oltre tre lustri si sforbicia a oltranza. La disponibilità dichiarata è quella ad un «adeguamento dei coefficienti che darebbe un po' di respiro ai conti pubblici». In soldoni, ciò vuol dire che per destinare qualche risorsa all'estensione degli ammortizzatori sociali per la platea che ne è ancora priva bisogna decurtare il valore delle pensioni. Ancora una volta la tesi è che l'operazione si deve fare "a costo zero", spalmando quel che c'è, togliendo da una parte ciò che si mette dall'altra: tutto rigorosamente dentro il perimetro del lavoro. Poi Veltroni si allarga, e in una esternazione dall'afflato formalmente unitario chiede al sindacato di superare vecchie incrostazioni ideologiche e riprendere il cammino unitario. Ma l'appello, con tutta evidenza, non è neutro. E' sulla Cgil che si fa pressione. Dopo una sequenza impressionante di accordi separati (commercio, lavoratori pubblici, scuola, Telecom, ecc.) ed altri in gestazione (sul testo unico in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro e in alcuni grandi gruppi industriali), Cisl e Uil si apprestano ora a sottoscrivere con le associazioni imprenditoriali - complice il governo - un accordo generale sul modello contrattuale. Veltroni non può non saperlo. Ma proprio mentre Guglielmo Epifani spiega le robuste ragioni che impediscono alla Cgil di unirsi al coro, egli rivolge alla Cgil l'invito a piegarsi al diktat confindustriale. Che, come è noto, delinea e formalizza un modello negoziale imperniato sulla progressiva eutanasia del contratto nazionale, sulla riduzione programmata dei salari, su una contrattazione integrativa limitata ad un'area ristretta di lavoratori e di lavoratrici, subordinata ad un aumento della fatica, delle ore lavorate e legata alle performance dei bilanci aziendali. Veltroni non può non vedere che quell'intesa incide nella carne viva delle relazioni industriali, muta il carattere stesso del sindacato, ne compromette l'autonomia, prefigura un sindacato consociativo che sostituisce la contrattazione con una rete di commissioni bilaterali. Ma è esattamente questo sindacato, aconflittuale, collaborativo, sterilizzato della sua identità progettuale, ad inscriversi perfettamente nella cosiddetta cultura "riformista".
22/01/2009


Che cos’è il veltrusconismo?
articolo di Carlo Gambescia
Esistono termini che raffigurano perfettamente una situazione. Di più: che possono aiutare a “categorizzare” concettualmente un fenomeno sociopolitico. Uno di questi è senz’altro quello di veltrusconismo, che ha il pregio di ricondurre sotto la stessa categoria due importanti personaggi politici italiani: Veltroni e Berlusconi, apparentemente diversi…
Il veltrusconismo rinvia però a due fenomeni generali, che caratterizzano la politica delle democrazie europee post-caduta dell’ Unione Sovietica. Il primo è quello della politica-spettacolo. Il secondo è quello della politica-interesse. Due fenomeni che hanno radici culturali e politiche statunitensi. Ma questa è un’altra storia…
Fare politica-spettacolo significa trasformare sistematicamente in evento politico, non il problema che deve essere risolto, ma la promessa di soluzione del medesimo fatta pubblicamente dal leader a coloro che "subiscono" il problema stesso. Il fatto politico, grazie alla complicità dei media, diviene non la situazione di disagio, ma il leader, che visita e stringe le mani, dei “disagiati”, magari mostrando grande commozione. Si sposta, insomma, l’attenzione, dalle cause (pubbliche) alle qualità (private) carismatiche del leader Fare politica-interesse significa costruire una politica fondata solo sugli interessi. Sostanzialmente, la politica diviene gestione economica degli eventi della politica-spettacolo.
Pertanto per un verso il leader intesse rapporti con quei poteri economici che consentono la realizzazione degli eventi ( e che ovviamente non danno nulla per nulla); per l’altro gli stessi eventi sono presentati come grandi successi e segni di progresso sociale. Oppure, brutalmente, lo stesso leader privilegia di fatto gli interessi privati (spesso addirittura personali) rispetto a quelli pubblici. In conclusione finiscono per contare soltanto le presunte qualità carismatiche di un leader, al tempo stesso capace di divertire e apparentemente mediare tra gli interessi: “divertire”, attenzione, nel senso latino del termine “divertere”, volgere in altra direzione...
In buona sostanza, perciò il veltrusconismo è un continuo sviamento dai problemi veri. Una “tecnica” che ha le sue radici profonde nell' atteggiamento carismatico del leader, attentamente costruito nel tempo, grazie a complicità sistemiche. Il che rivela, però, due debolezze di fondo.
La prima è che lo “sviamento” può essere valido fin quando non si diventa Presidente del Consiglio. Perché, una volta ghermito il potere, l’attendismo carismatico non basta più, si deve decidere e dunque assumere posizioni politiche autentiche (nel senso della decisione come inevitabile fonte di conflitto). E qui è inutile ricordare il fallimento “politico” di Berlusconi. Quanto a Veltroni, basta sottolineare che non gli sarà possibile governare una nazione, organizzando festival cinematografici in tutte le città e stringendo ogni giorno la mano a sessanta milioni di italiani.
La seconda debolezza è evidenziata dal fatto che quando Berlusconi e Veltroni sono costretti ad assumere posizioni politiche “vere” affiora subito la natura conservatrice del loro sentire. Praticamente in tema di economia e politica estera hanno le stesse posizioni: sono entrambi favorevoli al lavoro flessibile, ai tagli al welfare e a una politica estera filoamericana.
Nonostante tutto, il veltrusconismo sembra oggi vincente. Perché? In primo luogo è favorito dal sistema di potere economico che vi scorge un utile alleato. In secondo luogo è apprezzato, diciamo così, dalla cultura postmoderna dell’ effimero, che si nutre e nutre, in tutti i sensi, il veltrusconismo.
In terzo luogo, la caduta (per alcuni provvisoria) delle grandi ideologie ha favorito la personalizzazione della politica e la riduzione di essa a puro patto di scambio - basato sugli interessi e non sulle passioni politico-ideologiche - tra leader e cittadini sempre più desiderosi, grazie a quella cultura dell’effimero veicolata dai media, di “divertirsi”… Di dimenticare i problemi, pensando ad altro.
In conclusione, piaccia o meno, se non muteranno le basi sociali e culturali di cui sopra, sarà molto difficile liberarsi dal veltrusconismo. Sempre che non intervenga una gigantesca crisi economica, capace di rimettere in gioco tutto. Ma a quel punto il processo di recupero delle diverse identità e delle passioni collettive potrebbe essere complicato da quel bisogno di affidarsi a un leader decisionista, che i gruppi sociali, soprattutto se disgregati, mostrano regolarmente nelle grandi crisi storiche.
Così al veltrusconismo, almeno in linea ipotetica, rischia di sostituirsi un “grandefratellismo” totalitario, segnato non da mostre del cinema e “Contratti con gli Italiani” ma da grandi parate militari.

Articolo tratto da liberazione del 21.01.2009 di Dino Greco il nuovo direttore del giornale comunista.


L'altra America alla prova. Con questo titolo abbiamo aperto il giornale di ieri, in attesa del discorso di investitura di Barack Obama, per rappresentare la consistenza delle aspettative e, contemporaneamente, l'inanità del compito. E lui, il primo presidente nero del più potente paese del mondo, non ha deluso. Nella imponente scenografia davanti al Campidoglio si è colta una connessione sentimentale fra il neo presidente americano e il suo popolo, segnata da un'autenticità reale. L'attesa di una svolta profonda nei metodi e nei contenuti della politica americana - screditata fino all'impresentabilità dall'amministrazione Bush e travolta nella sua presunzione di onnipotenza dal tracollo economico finanziario - era davvero grande. Neppure i legittimi dubbi suscitati dalla scelta degli uomini chiave dell'establishment e da qualche evidente torsione moderata del programma con cui Obama aveva galvanizzato l'America liberal nel corso della campagna elettorale hanno affievolito un feeling che ora dovrà superare la prova del governo. Proporremo nei prossimi giorni una riflessione più accurata e articolata. Su alcuni punti merita tuttavia soffermarsi subito. Innanzitutto la voglia di scrollare di dosso dall'America l'odio, il sentimento di repulsione che la sua politica di potenza guerrafondaia si è guadagnata in giro per il mondo. La rivendicazione della pace, la mano tesa al mondo musulmano, la condanna della violenza, dei massacri di inermi, il futuro da assicurare ad ogni bambino e ad ogni latitudine sono parse evocare i drammi recenti in terra di Palestina. Il leit motiv della sicurezza del popolo americano è stato coniugato con il rispetto dei diritti umani. E poi la crisi, non solo dovuta all'inopinata irresponsabilità di pochi, ma frutto di errori di fondo che hanno compromesso diritti fondamentali, al lavoro, all'istruzione, all'abitazione, all'assistenza sanitaria, ad una retribuzione e ad una previdenza decenti. Il mercato resta (poteva non esserlo?) il perimetro dentro il quale ricostruire l'economia, ma va posto sotto controllo perché altrimenti esso diventa una cuccagna per i ricchi ed un lavacro per i poveri. Ed anche la crescita del Pil non dice nulla se non c'è redistribuzione della ricchezza. Sembra incrinarsi, sotto i colpi della crisi, l'antica mitologia che vuole il tenore di vita del popolo americano non negoziabile: «Il declino - dice Obama - non è inevitabile, ma dobbiamo cambiare i nostri obiettivi», il modo di produrre, in una neonata vocazione ecologica. «Useremo il sole, il vento, la terra», in una sorta di riconciliazione con la natura. E poi l'appello conclusivo alla responsabilità, condito tuttavia da un inconsueto, esplicito richiamo alla necessità di coniugare e non più contrapporre libertà ad uguaglianza.

Chi ha ucciso Livorno? Craxi proudhoniano.

Articolo di Giuseppe Prestipino
su Liberazione del 21/01/2009


Il craxismo fu un passaggio decisivo nell'attacco all'idea comunista
La storia dell'opposizione politico-sociale in Italia percorre almeno quattro fasi. La prima fu forse in varia misura caratterizzata da un ribellismo sociale principalmente contadino e/o meridionale, ancorché in alcune regioni e città si diffondessero le diverse correnti socialiste, il movimento cooperativo e, dopo la Rivoluzione di ottobre, gli esperimenti consiliari di autogestione nelle fabbriche e la stampa alternativa a quella socialista, come prime avvisaglie della scissione di Livorno. La seconda fu la fase dell'opposizione politica clandestina, comunista ma anche socialista e liberaldemocratica, contro il fascismo. La terza fu, dopo la caduta del fascismo, la fase della "democrazia organizzata" in un partito comunista di massa, capace di educare anche le plebi alla graduale conquista di "fortezze e casematte" combattendo la (gramsciana) "guerra di posizione". A Livorno era nato il Pcd'i. L'autentico atto di nascita del Pci non è tanto nella Resistenza o nella "svolta di Salerno", quanto nelle lotte per i decreti Gullo e soprattutto nella Costituzione repubblicana, che vede decisivamente impegnati tre "ordinovisti" torinesi: uno dei tre, Gramsci, presente-assente (presente come ispiratore) e gli altri due protagonisti di primo piano nell'elaborazione della Carta (Togliatti) e nel presiedere i lavori dei costituenti (Terracini). La quarta è la fase di una nuova ribellione quasi-anarchica, ma non più di plebi rurali o urbane, perché i suoi attori sono principalmente gruppi di piccoli intellettuali (diciamo "piccoli" per differenziarli dai "grandi intellettuali", mediatori coscienti del consenso a sostegno di industriali e agrari, scrutati dalle analisi gramsciane). In quest'ultima fase, studenti e mondo della scuola scuotono dapprima il sistema, in specie nel '68-69 e sotto i cartelli inneggianti alla vittoria vietnamita, contribuendo così alla rinnovata elaborazione teorica di Panzieri e di altri, alla conquista di nuovi spazi democratici e culturali-formativi anche a beneficio della classe operaia, a sua volta in forte movimento (tuttavia organizzato o non soltanto spontaneo). Ma, ben presto, alcuni appartenenti a quella generazione scelgono di assecondare, per un loro tornaconto personale, il disegno di restaurazione in atto ad opera del capitale e diventano giornalisti di destra o funzionari di azienda o infine consiglieri del principe nell'ultimo reame neoliberista. Altri scelgono la strada illusoria e rovinosa della lotta armata. Altri ancora, con il loro radicalismo anarchico o libertario e con la loro ingenua polemica contro la forma-partito (non soltanto novecentesca), si prestano senza volerlo al ben più accorto e insidioso giuoco delle destre "democratiche" ultra-conservatrici. Quest'ultima è la tipologia che caratterizza specialmente il periodo attuale. E' evidente che le diverse tipologie possono talvolta convivere o intrecciarsi tra loro. Un passaggio esemplare ritroviamo nel craxismo, ideologia anti-comunista che, sul terreno "teorico" rivaluta l'anarchismo precoce di Proudhon, sul terreno politico strizza l'occhio ai gruppi armati e ai sequestratori di Moro (non propriamente per sensibilità umanitaria) e sul terreno economico porta all'apice, senza pudori, la commistione tra politica e affari, spianando il terreno (senza volerlo) alla stagione di "mani pulite". La voce di Enrico Berlinguer sulla diversità comunista, sulla questione morale come dovere politico e sull'austerità come sinonimo di critica politica all'incipiente consumismo di massa, quella voce resta inascoltata.Sul versante teorico il trapasso, specialmente in Italia, dal partito comunista al democraticismo e alle tendenze neo-libertarie fa seguito alle polemiche contro lo storicismo. Il canone teorico-politico del Pci, almeno a partire dalle "Tesi di Lione", è storicistico anche nel senso di realistico: non si può ignorare la realtà storica sul tronco della quale ciascun partito innesta la propria lotta. Togliatti cerca una via italiana per un salto diverso, non più esplosivo come nel 1917, dalla tradizione all'innovazione. Lo storicismo gramsciano è antitetico ad altri storicismi, in specie a quello crociano, la cifra del quale è la discontinuità nella continuità, laddove per Gramsci è la continuità nella discontinuità. E' la differenza, appunto, tra dialettica conservatrice e dialettica innovatrice, una differenza non percepita da coloro che deplorano, nel Pci, un presunto storicismo della continuità, proprio poiché essi stessi, invece, ravvisano un'inesistente "continuità" tra Croce e Gramsci. Dagli anni '70 in poi non soltanto il Pci si allontana da Gramsci, ma una malcelata fragilità accomuna anche i suoi intellettuali più prestigiosi. I non frequenti tentativi di fare teoria trapelano tra le righe dell'esegesi marxiana, non si avventurano in una distinzione, se si vuole più "scolastica", tra le "revisioni" teoriche e le reintepretazioni filologicamente rigorose dei testi marxiani. E oggi i "superatori" del comunismo hanno basi teoriche? Poche e deboli. Le proposte di Toni Negri e di Marcello Cini, come dimostra Raul Mordenti, fraintendono Marx e assolutizzano la sostituzione del lavoro fisico con quello immateriale, enfatizzato in maniera non dialettica e debitrice di un pensiero occidentale che ricalca il vecchio dualismo tra anima e corpo. Si legga invece l'ultimo libro di André Tosel, Un monde en abîme? Essai sul la mondialisation capitaliste (Editions Kimé, Paris, 2008). La novità di quest'ultima mondializzazione capitalistica consiste nell'aver unificato non soltanto il mercato delle merci e delle comunicazioni, in specie delle comunicazioni tra le borse (ciò che in varia misura è già accaduto in passato), ma anche e soprattutto il mercato del lavoro "materiale", che ieri aveva i suoi luoghi di elezione in ambiti nazionali e diviene oggi «sottomissione mondiale del lavoro»: il capitale importa e esporta mano d'opera o "eserciti di riserva" da un paese all'altro, mettendo in atto una strategia complessa in forza della quale la frammentazione dei lavori procede di pari passo con il nuovo mercato unificato del lavoro. I vari razzismi, etnicismi, comunitarismi sono le stratificazioni del lavoro, anche in ciascuno Stato, a scopo di divisione e reciproca ostilità tra i lavoratori, specie se di diversa nazionalità, e per una rinnovata solidarietà verticale neo-corporativa tra lavoratori e datori di lavoro in una pluralità di livelli gerarchici che fa rivivere, dentro l'iper-moderno, le società premoderne. Compito di ciascuno Stato nazionale è di «assicurare la gestione differenziata della forza lavoro» e di pilotare, scrive Tosel, «la deregolazione come forma nuova della regolazione, non come il suo contrario», cercando di occupare una posizione più alta nella competizione delle sue imprese transnazionali sul mercato mondiale. «Il Presidente della Repubblica concepisce il proprio ruolo come quello di un capo-commesso viaggiatore».Non soltanto in Francia. Il futuro Presidente della Repubblica italiana "fondata sul lavoro" è un imprenditore viaggiante in prima persona (specialmente, sull'etere).

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